Qualche anno fa scrivevano di lui come di un camaleonte. Ma Diego Guerra, a quelle parole, non aveva badato troppo, non riconoscendovi nell’accostamento un possibile animale-guida. Così la descrizione, ripiegata come una maglietta di taglia imprecisata, finiva nel fondo di un cassetto riaperto solo quando quest’intervista, e la ricerca di una risposta, avrebbero riportato alla luce quell’accostamento per scoprire quanto, in realtà, vesta alla perfezione.
Perché quella capacità di adattarsi alle situazioni per trovare la migliore delle soluzioni, è la caratteristica che in lui più si riconosce. In sella alla moto e alla sua vita. Quella di un ragazzo innamorato della recitazione tanto da arrivare, credendoci e senza passepartout, a farne una professione, a diventare da adulto un attore che ad un certo punto sente “di avere qualche carta da giocarsi in una carriera da stuntman – racconta Diego -di poterci e doverci provare. Riuscendoci. Nonostante non mancasse chi trovava e trova che l’una escluda l’altra.”
Ma la caratteristica del camaleonte è proprio quella capacità di adattarsi alla realtà che lo circonda divenendone parte. Assumendone l’aspetto pur rimanendo sé stesso. Come quando indossa la tuta da moto e dedica tempo ad un’altra sua, grande, passione. Cresciuta e sfamata a pane e gas, miscela e fango dei circuiti di minicross fino alle piste da affrontare a bordo di uno scooter, passando da motard e minimoto. Guiderà tutto, purché abbia un motore e due ruote.
“Un amore che ad un certo punto avevo lasciato per strada, per dare spazio alla professione, alla famiglia e ai figli. Un sentimento solo addormentato e una fiamma riaccesa da un semplice invito a risalire in sella. Con la conferma che non si spegnerà data dall’incontro con i Trofei Malossi, con quell’universo familiare dove accanto al sano agonismo trovi il piacere della sfida ma anche la voglia di condividere, di stare in compagnia. Chi mi conosce, anche poco, sa bene che nessuna altra offerta, anche se generosa, potrebbe allontanarmi da qui.”
E da quella voglia di tornare a vincere. “Dopo qualche anno in cui avevo sfiorato quel titolo arrivato in T-Max Cup proprio in questo 2019. Una stagione iniziata pagando il prezzo più alto già nella prima giornata per poi assaporare il massimo delle soddisfazioni.” Una serie di vittorie che però, da sole, servirebbero solo a riempire le classifiche.
E non a raccontare, in maniera piena ed emblematica, “di un’amicizia che sarebbe diventata tale solo nei box. Dopo qualche anno di gare, infatti, sono entrato a far parte del team capitanato da quell’ex pilota, Marvin Mendogho, che in pista affrontavo da avversario, senza esclusioni di colpi e scintille. Tra noi non correva buon sangue e quella di gareggiare nel nome del mio rivale era una sfida doppia. Credo di aver accettato proprio per questo.”
Intuendo, forse, che “proprio lì, tra una messa a punto del motore e la scelta delle gomme migliori, avrei conosciuto una grande persona capace, con la sua esperienza, non solo di offrirmi un grande mezzo che io, al contrario, non sono bravo a sviluppare, ma anche di insegnarmi molto. E non mi sbagliavo.” Come non sbaglierà nel momento clou quando, arrivato il finale di stagione a Vallelunga, il primo a passare sotto la bandiera a scacchi di gara e annata sarà lui.
Conquistando un titolo su una pista, quella del circuito laziale, con cui aveva un conto in sospeso e che “pur essendo uno dei miei percorsi preferiti, nonostante sia uno di quelli in cui il guidato può contare meno della prestazione del motore, dopo un campionato di qualche anno fa perso a bordo di un mezzo che mi aveva abbandonato all’uscita dei Cimini, sembrava stregato. Ora – chiude il pilota e attore romano- posso pensare che quel sortilegio faccia parte del passato.” Mentre tutto il resto è futuro di cui assumere l’aspetto pur rimanendo sé stesso.
Emanuela Macrì